Waiting For Godot

Febbraio 2017

Siamo agli inizi degli anni Cinquanta. L’assurdo è un concetto astratto, ma calato nella realtà. La vita è vista come nonsenso, come assurdità. Ricordiamo Franz Kafka (La Metamorfosi). La condizione dell’assurdo è la condizione dell’esistenza. Anche Luigi Pirandello ne I giganti della Montagna svolge questo soggetto. Martin Esslin ha pubblicato un libro sull’assurdo (The Theatre of the Absurd, Pelican – 1961) che è liberamente scaricabile. Anche l’Esistenzialismo nella crisi dei valori e degli ideali esprime l’assurdità della vita.

La guerra è alla base di queste visioni. La guerra genera il Neorealismo e l’Assurdo.

La cultura francese ha avuto una parte importante nell’elaborazione culturale: Albert Camus (Il Mito di Sisifo, 1942), Eugene Ionesco. Nei valori dell’assurdo viene smembrata ogni categoria e ordine e genere: non esiste più intreccio né trama, non c’è più differenza tra commedia e tragedia, non esistono più valori assoluti, non c’è più lotta eroica tra opposti valori.

Il cinema fornisce modelli e temi al teatro dell’assurdo: il cinema comico dà molto al teatro dell’assurdo: Charlie Chaplin per esempio, anche se Charlot ha una componente sentimentalista assente nel teatro dell’Assurdo. I fratelli Marx e Buster Keaton, invece, sono molto più vicini al teatro dell’Assurdo. Specialmente i primi poiché smontano il linguaggio. C’è, quindi, un capovolgimento tra cinema e teatro: il cinema nasce come imitazione del teatro, ora il teatro prende qualcosa dal cinema.

Tra i cineasti moderni Woody Allen tiene conto del teatro dell’Assurdo. In Italia Michelangelo Antonioni tratta l’assurdo da un punto di vista tragico più che comico. In Inghilterra c’è la tradizione shakespiriana e la tradizione del nonsense, ricordiamo, inoltre Alice in Wonderland (cfr. l’uso del linguaggio in Alice). Il linguaggio, lungi dall’essere il mezzo di comunicazione, nel teatro dell’Assurdo diventa un ostacolo alla comunicazione: il teatro dell’Assurdo vuole provare a demolire l’ostacolo.

A livello drammaturgico, l’Assurdo rifiuta la tradizione, la trama, il colpo di scena, il romanticismo. C’è un continuo gioco del linguaggio, strumento non di comunicazione, ma di conflitto. Il rapporto linguistico rivela la conflittualità della realtà e la non comunicazione. Emerge la crisi del linguaggio in generale, e del linguaggio teatrale in particolare, emerge la sua incapacità di comunicare con gli altri. Tutto ciò porta al rifiuto del teatro ideologico impegnato (G.B. Shaw). Non c’è più attacco diretto alla società, poiché è già scontato, la società è gia disgregata: quello dell’Assurdo è un teatro anti-ideologico. Rifugge da una interpretazione sociologica della società per concentrarsi su problemi più generali.

Samuel Beckett incarna il teatro dell’Assurdo, fu figura singolare, contemporaneo di Joyce che conobbe e con cui lavorò. E’ stato molto riservato rifiutando qualsiasi coinvolgimento in un impegno sociale.

Waiting for Godot è un’opera comica. La comicità è la dimensione del contatto con il pubblico. W4G fu scritto tra il 1948 e il 1949. La prima rappresentazione è del 1953. La prima stesura è in francese e fu un netto insuccesso. Nel 1955 venne rappresentata in Inghiltera e ci fu un certo successo: venne sottolineata la comicità e l’elemento polemico rispetto alle strutture teatrali (Kenneth Tynan).

W4G non ha né inizio, né fine, né centro. E’ solo lo spendere due ore al buio senza annoiarsi, ma questa è proprio la vita, l’attesa di Godot. Stanlio e Ollio sono stati paragonati ai due barboni che aspettano Godot.

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L’opera è in due atti: Godot non compare nell’opera. C’è una battuta che ritorna spesso nell’opera e su cui è forse costruita tutta l’opera: “Let’s go …”

La trama è difficile da raccontare: ci sono due persone che aspettano Godot. I due parlano al presente, il passato non c’è, Estragon non lo ricorda affatto.

Intervengono altri due personaggi: Pozzo e Lucky. Quest’ultimo non parla quasi mai, solo nel primo atto fa un discorso sconclusionato, senza senso, usando paroloni.

Compare un bimbo per due volte e potrebbe essere rappresentato da due attori diversi. La scena finale lascia tutto invariato.

Vladimir e Estragon non sono identici, ma rappresentano aspetti diversi della figura del clown. Dietro di loro c’è la tradizione clownesca, per la quale esistono due figure di clown: uno impersona la violenza, l’altro è mite e subisce la violenza dell’altro. I due ricalcano un po’ la dialettica della coppia (i clown sono sempre maschi). Vladimir è il clown mite, Estragon è scalciante. La dialettica tra questi due personaggi è importante nell’opera: la riempie.

Un’altra componente importante è la scenografia. La scena è vuota, c’è solo un albero che all’inizio dell’opera rappresenta l’unico elemento naturale e nel secondo atto dovrebbe servire ai due protagonisti per impiccarsi. Nell’opera stessa si parla della scenografia, l’assenza di una scena più ricca viene avvertita dagli stessi protagonisti.

L’azione si svolge senza tempo e, in effetti, senza luogo: l’opera si svolge in una fissità di tempo e spazio (nulla accade, nessuno viene, nessuno va via). L’angustia è resa anche dal linguaggio dei protagonisti. E’ privo di magniloquenza, descrizioni e fantasia. Una tale aridità, un tale deserto rimanda al finale: anche se non cìè nulla da fare e anche se Godot non arriverà è d’altra parte altrettanto vero che non esiste altro posto dove andare.

Beckett è pieno di indicazioni didascaliche per la scena, indica gesti e azioni degli attori: l’unica cosa che riempie la scena è la gestualità degli attori, essa dà l’idea della vita, anche se vita inutile.

Nothing to be done: è una delle battute chiave dell’opera. Non c’è nulla da fare. Pur se la vita è costellata da gesti inutili e assurdi (levarsi la scarpa, mettersi la scarpa, guardare nel cappello) non esiste via di intervento concreto, non c’è possibilità di cambiamento.

L’elemento della danza e della musica sono presenti. Il movimento viene creato con l’uso di pochi oggetti presenti in scena: c’è uno scambio di cappelli, una valigia che si sposta, Vladimir e Estragon che si abbracciano ogni volta che s’incontrano. Questi sono i movimenti (inutili) che creano la vita della scena. Un altro costituente della scena è il silenzio.

Tra gli espedienti che Estragon e Vladimir usano per trascorrere il tempo, per vivere, c’è anche il teatro stesso (l’arte): imitano Pozzo e Lucky. Si può dire che forse l’unico modo di esistere, di evitare il nulla è il linguaggio.

L’opera non va vista in funzione di Godot. Non bisogna sclerotizzarsi nella domanda chi è Godot o cosa rappresenti. Di Godot non si sa nulla fino alla fine del primo atto, quando compare il bambino che conosce Godot. Godot pare essere un uomo potente, una specie di dio. Godot non esiste, non è un personaggio, è l’attesa, l’assenza, il nulla, il vuoto. Godot è ciò che i due cercano di esorcizzare col linguaggio e con la vita. Godot è il nulla, quado arriverà l’opera finirà, con Godot l’opera finisce nel nulla.

E’ poco verosimile l’ipotesi di vedere Godot come God, dio, capace di riempire la vita. D’altro canto Pozzo e Lucky, unanimemente per la critica, rappresentano l’idea che la vita può cambiare solo in peggio.

L’arte esce fuori abbastanza disastrata: l’arte è quel linguaggio che ci separa dal nulla, ma è linguaggio ben poco utile. L’ultimo gesto significativo è il tirarsi su i pantaloni di Estragon: la quintessenza della banalità e del nulla, come il fatto che cessano le parole e l’azione: They do not move.

Questa è la fine della possibilità del teatro di esprimere la realtà, non è la fine della realtà. L’arte, ci dice Beckett, è fallimento.

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